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Da il giornale.  di Alessandro Gnocchi  Quattro milioni e mezzo di bambini uccisi prima della nascita. Vuol dire 137.000 ogni anno, a partire dall’istituzione della legge 194. Era il maggio del 1978, quando l'aborto diventava ufficialmente la conquista di un diritto cosiddetto civile e veniva legalizzato dal Parlamento italiano.

La Chiesa rispondeva con un documento molto severo e con una «Giornata per la vita», che dal 1979 si celebra ogni prima domenica di febbraio.
Secondo tradizione, i vescovi ci hanno inviato un messaggio, quasi una richiesta di aiuto in bottiglia, come naufraghi della società secolarizzata. Leggendolo, ci accorgiamo di quanto questo povero mondo sia cambiato in peggio. E di quanto abbia ancora bisogno della parola ferma e scomoda della Chiesa, anche se ormai ogni parere di un vescovo viene schedato come strumento di ingerenza: è di queste ore la levata di scudi della sinistra per protestare contro l'altolà dei vescovi alla bozza di legge Pollastrini-Bindi sulle unioni di fatto. Eppure, non sono solo i cristiani ad avere bisogno di una guida simile, ma tutti gli uomini. Perché la Chiesa non è portatrice di una semplice opinione sul credente, ma della verità sull'uomo. Il poeta pagano Terenzio scriveva: «Sono uomo: tutto ciò che è umano mi riguarda». Il tema della vita riguarda tutti, sempre di più. Negli Anni Settanta sembrava che in gioco vi fosse solo la questione dell'aborto. Molti, anche fra i cattolici, pensarono che fosse possibile limitare i danni accettando una «regolamentazione», consentendo agli altri la libertà di fare quello che loro non avrebbero mai fatto.
Ma in quella difesa dell'embrione invisibile, del feto che si tiene in bocca il dito durante l'ecografia, la Chiesa esercitava una delle sue prerogative più tipiche: la profezia. Metteva in guardia gli uomini dalla deriva che la cultura della morte avrebbe imboccato. Perché il pensiero libertario non si ferma mai, è come un leone ruggente che divora pezzi di civiltà. E più mangia, più è affamato. Cominciò con il divorzio, invocato «solo per i casi drammatici»: e oggi siamo alla parificazione delle coppie omosessuali al matrimonio. Proseguì con l'aborto, «per i casi pietosi»: e oggi abbiamo pillole per uccidere il concepito in vendita dal farmacista, figli costruiti in provetta ed eliminati se difettosi, ovuli di donna in vendita su internet a 6.500 euro l'uno. La strategia della cultura della morte non cambia mai: promuove con aria innocente il «testamento biologico» e intanto progetta di legalizzare l'eutanasia, invoca diritti per le persone e così crea i presupposti per i Pacs, magari cominciando da quelli cosiddetti «alla padovana» a cui abbiamo appena assistito.
Si può scendere a patti con il male? No, non si può. Perché se gli si concede un dito, divora la mano. Illudersi di sconfiggerlo, magari vietando la fecondazione in vitro eterologa, è come minimo da ingenui, perché, intanto, l'idea del diritto al figlio a tutti i costi si fa cultura e costume, e gonfia come un fiume in piena le rivendicazioni di una minoranza rumorosa. Nel 1978 perfino eminenti uomini politici cattolici credettero di agire bene, scegliendo la strada del compromesso: meglio firmare la legge 194 che far cadere l'esecutivo, cioè la vita di un governo barattata con quella di milioni di esseri umani. Dopo poche settimane quel governo era costretto alle dimissioni, travolto da uno scandalo poi rivelatosi infondato.
Oggi come allora, questa è la grande tentazione: pensare che ci sia un bene più importante della testimonianza della verità. Perché non siamo spettatori, ma «ci troviamo nel mezzo di uno scontro immane fra la cultura della vita e la cultura della morte». Lo scriveva Giovanni Paolo II. Essere neutrali è impossibile: dobbiamo scegliere da che parte vogliamo stare, e trarne le conseguenze.