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la croce 28 april 2016Mirko De Carli

Il caso. Marco, impiegato bolognese reduce da un matrimonio non andato a buon fine e con un figlio nato da quel rapporto sentimentale. A un certo punto della sua vita decide di diventare donna e di chiamarsi Rossana. Questa scelta, libera e personalissima, lo porta a doversi confrontare con l’ambiente lavorativo in una maniera diversa e per lui non semplice. Dice di aver subito minacce e per questo si rivolge ad un avvocato arcobaleno per inviare una diffida all’azienda in cui lavora. Lui dice che questo sarebbe ‘l’unico modo per vedere riconosciuti i propri diritti’. Ma di quali diritti stiamo parlando?

Entriamo nel merito della vicenda: cosa disciplina la legge italiana è come?

La legislazione definisce la procedura necessaria per ottenere il cambiamento del proprio sesso. Si tratta di un iter complesso, non tanto dal punto di vista normativo, quanto per le conseguenze di natura psicologica sugli individui e per la difficoltà degli interventi chirurgici necessari.

Il cambiamento di sesso porta all’attribuzione del sesso diverso rispetto a quello geneticamente donato alla persona che lo richiede. Per giungere ad un vero e proprio cambio anagrafico, è necessaria la ri-attribuzione chirurgica di sesso (RCS) o “Sex Reassignment Surgery-SRS”, la quale deve avvenire attraverso una sentenza che lo autorizza poiché comporta l’asportazione degli organi della riproduzione che, in assenza di patologie organiche che la giustifichino, è vietata perché lesiva dell’integrità della persona.

L’art. 31 del D. Lgs. n. 150/2011, al comma 4, stabilisce che “quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato”.

Per ottenere questa autorizzazione, dunque, il richiedente dovrà rivolgersi al Tribunale di residenza, il quale può disporre una consulenza intesa ad accertare le condizioni psico-sessuali dell’interessato e nominare un consulente tecnico d’ufficio (C.T.U.) che effettua alcuni incontri con la persona che ha richiesto la rettificazione, svolge una serie di indagini e prepara una relazione scritta. Il richiedente può a sua volta scegliere un proprio consulente tecnico di parte (C.T.P.).

In questa fase, anche se non specificato dalla legge, l’iter di natura psicologica è fondamentale ed essenziale per le strutture nazionali che hanno approvato e recepito gli Standard italiani sui percorsi di adeguamento dell’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere e dalle maggiori organizzazioni internazionali (es. The Harry Benjamin International Gender Dysphoria Association ecc.). Capite bene quindi quanto siano già ben orientate queste strutture verso i diktat della colonizzazione gender.

Dopo la cosiddetta ri-attribuzione chirurgica di sesso (RCS) deve avvenire anche la rettificazione di attribuzione di sesso, cioè la modifica dei dati personali, nome proprio e sesso attribuito alla nascita, nei registri dell’anagrafe a cui si è iscritti.
Anche in questo caso è necessario presentare ricorso al Tribunale di residenza per ottenere la rettifica anagrafica e bisognerà esibire le cartelle cliniche della struttura sanitaria dove è stata effettuata la riconversione.

Il Tribunale potrà accettare la cartella clinica o nominare dei periti d’ufficio e, al termine dell’istruttoria, ratifica l’avvenuta conversione e ordina all’ufficiale di stato civile di apportare le opportune rettifiche all’atto di nascita. La variazione risulta solo nell’atto di nascita integrale. Tutti gli altri certificati riportano esclusivamente i nuovi dati personali.

Anche se per effettuare la terapia ormonale non è necessaria l’autorizzazione, questa deve comunque avvenire secondo le procedure previste dagli Standard per il percorso di adeguamento di sesso adottati dall’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere. Si tratta di terapie invasive che producono cambiamenti sostanziali (testosterone per il cambiamento da donna a uomo e estrogeni femminilizzanti e farmaci antiandroginici per il cambiamento da uomo a donna).

Per il cambiamento da uomo a donna si parla di mammoplastica additiva (cioè l’introduzione di una protesi) e di vaginoplastica (asportazione degli organi genitali originari e ricostruzione di una nuova cavità ricavata tra retto e vescica). Altri interventi consistono nella riduzione del pomo d’adamo, eliminazione della barba (ad esempio con tecnologia laser) e asportazione delle ultime due costole per donare una forma più sinuosa al corpo.
Per il cambiamento da donna a uomo l’iter chirurgico è più lungo e complicato. In una prima fase è necessaria una Adenectomia sottocutanea con una riduzione del volume mammario a cui si aggiunge l’asportazione chirurgica della ghiandola mammaria e della cute eccedente. A questo segue poi l’Istero–annessectomia (con un unico intervento chirurgico si asportano utero e ovaie) e si conclude con la Falloplastica (costruzione di un organo cilindrico simile al pene che assolve funzioni estetiche, urinarie e sessuali).

Bisogna chiedersi cosa accade nel caso in cui due coniugi, nonostante la rettificazione dell’attribuzione di sesso ottenuta da uno di essi, non intendano interrompere la loro vita di coppia e, quindi, non intendono porre fine al loro matrimonio.
Sulla questione si è pronunciata la Corte Costituzionale (sentenza n. 170 del 10 giugno 2014) che ha ritenuto ammissibile il ricorso presentato da una coppia di coniugi per ottenere la cancellazione della annotazione di «cessazione degli effetti del vincolo civile del matrimonio», che l’ufficiale di stato civile aveva apposta in calce all’atto di matrimonio, contestualmente all’annotazione, su ordine del Tribunale, della rettifica (da “maschile” a “femminile”) del sesso del marito.

La Corte ha quindi accolto l’impugnazione in sede di legittimità delle due ricorrenti, dichiarando, di conseguenza, l’illegittimità dell’annotazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio apposta a margine del loro atto di matrimonio. In sintesi la Corte ha disposto, in casi di questo tipo, l’illegittimità del cosiddetto “divorzio imposto”, cioè di un divorzio che si possa formalizzare anche in assenza del consenso delle parti, e ha riconosciuto il diritto dei coniugi a conservare il vincolo matrimoniale legittimamente contratto in origine (siccome allora fondato sul requisito dell’eterossessualità dei nubendi) fino a quando il legislatore non consentirà loro – con apposito intervento normativo – di mantenere in vita il rapporto di coppia giuridicamente intercorrente con altra forma di convivenza registrata che sia idonea a tutelare, col maggior grado di protezione possibile, i reciproci diritti ed obblighi dei due componenti.

Capite bene la partita in gioco? Scardinare l’art.29 della costituzione italiana attraverso il grimaldello giudiziario. La Corte invita subdolamente il legislatore a definire una legge sulle unioni civili in grado di superare i vincoli previsti dal matrimonio come codificato nella Carta Costituzionale.

Obiettivo ulteriore? Come in Nord Europa ed all’estero arriva all’orizzonte del ‘cambio di sesso a piacere’. Ulteriore follia. Ulteriore falso mito di progresso.

Per questo la vicenda di Marco e la diffida messa in atto dai legali arcobaleno rappresenta solo un caso che non troverà alcuna conferma giudiziaria sostanziale: si vuole creare il caso, fare lo spot mediatico ed intimidire l’azienda ed orientare i giudici.

Una cosa è certa: a Bologna il Popolo della Famiglia sarà il baluardo tenace e vigoroso in campo per bloccare queste derive culturali pericolose e dannose per l’uomo. Con noi queste presunte avanguardie nell’amministrazione comunale bolognese non troveranno spazio. Di questo statene certi.

© http://www.lacrocequotidiano.it/ - 28 aprile 2016

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