UK fuori UEMirko De Carli

 

E oggi tutti ad applaudire all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, a gridare trionfanti sentimenti nazionalisti e smanie identitarie dai virtuosismi un po’ troppo glamour. Ha vinto la voglia del popolo britannico di essere autonomo completamente da una Unione Europa sin dall’inizio vista come una zavorra da sopportare più che un volano da utilizzare.

 

La Tatcher fu profetica in questo: ritenne l’euro un disastro perché avrebbe impoverito i popoli europei e non avrebbe creato margini di crescita per i paesi ma solamente un meccanismo di accentramento finanziario verso il colosso monetario per eccellenza: la Germania. Non è un caso che, dopo la riunificazione tedesca, si è sposata la direttrice guida dell’Unione Europea dalla centralità del percorso di unificazione politica e militare (tanto caro ai padri fondatori) al predominio assoluto della moneta unica. Un nuovo orientamento che voleva far apparire come necessario e virtuoso il meccanismo dell’euro ma che dietro celava altri obiettivi più importanti per i governi forti del nord europea: nascita di una banca centrale europea forte e a guida tedesca, modello ‘Marco’ per il neonato euro e controllo di politica monetaria e di bilancio degli Stati del sud Europa (più ballerini nelle contabilità nazionali e più legati all’export) attraverso una Bce sempre più matrigna dell’Unione Europea.

 

Siamo passati dal discorso di De Gasperi a Strasburgo sull’importanza dell’Unione Europea al discorso di David Cameron dove si dimette da premier e lascia un paese in balia di se stesso, dopo averlo in prima persona gettato nel baratro. Ma cosa disse De Gasperi il 12 gennaio del 1951? Ecco qua un estratto del suo intervento:

 

‘Se noi costruiremo soltanto amministrazioni comuni, senza una volontà politica superiore vivificata da un organismo centrale, nel quale le volontà nazionali si incontrino, si precisino e si animino in una sintesi superiore, rischieremo che questa attività europea appaia, al confronto della vitalità nazionale particolare, senza calore, senza vita ideale. Potrebbe anche apparire ad un certo momento una sovrastruttura superflua e forse anche oppressiva quale appare in certi periodi del suo declino il Sacro Romano Impero’.

 

Il punto è proprio in queste parole: lo statista trentino comprese perfettamente il rischio che si sarebbe corso se non si fosse avviato un processo di vera rappresentatività democratica e un autentico riconoscimento identitario comune. Oggi siamo arrivati a questo drammatico punto. E la responsabilità, purtroppo, è tutta politica.

 

La politica ha abdicato da troppo tempo la leadership europea all’alta finanza, ai mercati ed alle logiche di una globalizzazione che non fa prigionieri nel percorso di dominio incontrastato mondiale. Un dato su tutti dimostra questo: hanno votato nella stragrande maggioranza a favore del Brexit le zone rurali anglosassoni, non certamente la city di Londra.

 

Fatta questa analisi occorre ora comprendere bene i danni di questa scelta per comprendere chiaramente come gestire politicamente i prossimi passaggi delicatissimi.

 

Iniziamo dai punti fondamentali. Lasciare l’Ue significa per il Regno Unito uscire dall’Unione doganale dell’Ue, presupposto per gli scambi commerciali transnazionali tra i 28 membri dell’Ue (che fissa anche tariffe esterne comuni nei confronti di paesi terzi). Significa pure uscire dal Mercato unico, perno della libera circolazione di beni e servizi tra i membri dell’UE.

 

Nel periodo di circa due anni necessario per l’effettivo ritiro completo della Gran Bretagna dall’Ue, si dovrebbero organizzare negoziati tra il Regno Unito e l’Ue su molti punti, dalla sovranità all’ordinamento giuridico, dall’immigrazione alle finanze alle questioni economiche.

 

La soluzione più auspicabile sarebbe se tutti gli attori implicati concordassero di mantenere la libertà commerciale già conquistata, e se il Regno Unito fissasse una nuova tariffa daziaria esterna sulla base del duty-free, applicabile a tutti.

 

Questa situazione potrebbe prevedere per gli esportatori del Regno Unito l’accettazione di tariffe daziarie comuni esterne all’Ue, e quindi la creazione di proprie tariffe, applicate a tutte le importazioni, comprese quelle dall’Ue. Poiché la tariffa daziaria comune è a un livello relativamente basso sui prodotti dell’industria e del pescato, questa potrebbe non essere una barriera insuperabile per le esportazioni del Regno Unito, e potrebbe consentire una certa flessibilità atta a tutelare le aziende britanniche dalle importazioni.

 

Che cosa si cela dietro tutto questo? I Brexiteer dovrebbero chiedersi come garantire un alto livello di accesso al mercato interno dell’Ue. Ciò è di vitale importanza per le società di servizio britanniche, in particolare per le esportazioni di servizi finanziari della City londinese.

 

Il punto è che un accordo del genere andrebbe contro tutti gli impulsi dei Brexiteer, perché vorrebbe dire accettare le “quattro libertà” dell’Unione europea, e dunque non soltanto la libera circolazione di beni, servizi e capitali, ma anche delle persone. E questo non quadrerebbe affatto con l’obbiettivo della Brexit di ‘tenere sotto controllo le nostre frontiere’.

 

Naturalmente, potrebbero esserci accordi specifici per settori particolari. Pare tuttavia improbabile che simili accordi possano essere stretti nell’ambito dei servizi finanziari e dei più importanti servizi professionali (come quelli offerti da medici, architetti e avvocati), che sono importanti per i concorrenti della Gran Bretagna in Europa. In verità, è anche possibile che l’Ue possa a quel punto adottare una presa di posizione dura e mercantilista e dica: ‘Volete un accesso privilegiato? Allora restate nel club’.

 

La conseguenza ultima della Brexit è che il Regno Unito resterebbe privo dei suoi accordi di libertà commerciale stretti con i paesi terzi in base ai molti accordi commerciali che l’Ue ha firmato dal 2000 in poi. Sostituire tali trattati con accordi bilaterali richiederebbe tempo. E nulla garantisce che l’Ue sarebbe d’accordo a prolungare a interim la libertà di commercio, mentre sembra certo che le esportazioni del Regno Unito dovrebbero far fronte a tariffe daziare più alte rispetto a quelle dei suoi ex partner dell’Ue in quei paesi terzi.

 

Sufficientemente chiaro? La storia insegna che le unioni tra stati per creare vero giovamento ai popoli devono continuare nei loro processi federativi fino alla piena e compiuta democrazia rappresentativa dell’Unione stessa. Pensate alla straordinaria vicenda del Presidente Lincoln: davanti alla secessione degli Stati del Sud che non potevano accettare l’eliminazione della schiavitù non è arretrato di un millimetro, ha combattuto scongiurando l’implosione della confederazione degli Stati americani ed è riuscito ad approvare lo storico emendamento che bandiva definitivamente la schiavitù in America.

 

Oggi in Europa abbiamo un disperato bisogno di Lincoln, non di premier come Cameron che invocano il referendum per il Brexit per raccattare consensi antieuropeisti in campagna elettorale e poi, quando il paese cola a picco, abbandona la nave fregandosene completamente del destino di un popolo.

 

Ora l’Unione Europea deve prima di tutto riaffermare il primato della politica sull’economia. Con 3 semplici mosse:

 

– Riapertura dei tavoli inerenti la Costituzione Europea (con il coraggio di mettere al centro del dibattito le radici greco-giudaico-cristiane)

 

– politica estera (in particolare sul tema dell’immigrazione) comune dove si preveda una vera corresponsabilità europea

 

– eurobond per dimostrare che l’Unione Europa poggia tutta la sua forza sulla solidarietà tra Stati non sull’egoismo di alcuni che porta alla morte altri.

 

Tutto questo non può pero prescindere da organi decisionali democraticamente eletti: basta commissioni europee di nominati, ridimensionato del ruolo del Consigli d’Europa con gli Stati membri…

 

Occorre affermare la centralità del parlamento europeo come organo veramente decisionale, con una commissione europea veramente rappresentativa delle maggioranze parlamentari e scelta tra le fila degli eletti parlamentari. Ci vuole cambiamento, ci vuole coraggio. Non riforme fine a se stesse ma leggi capaci di interpretare il senso di malessere e disperazione di un popolo.

 

Ripartiamo dai giovani britannici che hanno votato contro il Brexit. Ripartiamo dalla loro speranza per costruire l’Europa per cui hanno dato la vita i nostri padri e non l’Unione Europea per cui non vogliono più lottare i nostri figli.

 


Mirko De Carli
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