Da E' Famiglia. no_dico
1. Dico: le domande sul tavolo
Per quali ragioni il disegno di legge che disciplinerebbe i diritti dei conviventi (Dico), recentemente approvato dal governo della Repubblica italiana e destinato al dibattito parlamentare, incontra il giudizio fortemente negativo dei vescovi italiani? Per quali ragioni il pensiero cristiano ritiene irrazionale e ingiusto sostenere idealmente o politicamente tale disegno di legge?

La risoluta e severa reazione dei vescovi, la vivacità del dibattito e delle sue amplificazioni massmediatiche, la complessità della materia, l’attenzione odierna al tema dei diritti di ogni uomo, sono elementi che inducono in noi il bisogno di un attento discernimento. Non pochi dei sostenitori di quel disegno di legge, oltretutto, sono cattolici, e sostengono di aver operato con intenti, metodi e risultati compatibili con le esigenze del bene comune e con quelle della moralità cristiana. Alcuni cristiani si sentono disorientati, di fronte a tale situazione, mentre anche nel mondo laico si accende il confronto tra chi auspica che il Parlamento approvi il testo varato dal governo, facendone una legge dello Stato, e chi invece lo giudica del tutto inaccettabile per ragioni che nulla hanno a che vedere con la religione in generale o con il cattolicesimo in particolare.
In realtà, sono diverse le domande cui è bene dare risposta per giungere a formulare un giudizio esatto sul disegno di legge che regola i Dico: quali diritti devono essere riconosciuti a due persone che convivono sulla base di un legame affettivo in assenza di matrimonio? Se tali persone hanno dei diritti ulteriori, in quanto conviventi, rispetto a quelli che possiedono già in quanto cittadini, è dunque il loro legame affettivo che genera tali diritti? E se così è, tale legame genera simili diritti a prescindere dal fatto che i conviventi stessi siano eterosessuali oppure omosessuali, o che siano due o più, o consanguinei o meno? E quali conseguenze avrebbe, infine, per la società italiana la trasformazione in legge del disegno governativo sui Dico?

2. Prima premessa: non si tratta di una questione religiosa
Questa serie di interrogativi trova esatte risposte solamente se sono chiare le ragioni per cui il vincolo del matrimonio genera delle prerogative speciali che il diritto riconosce alla coppia di coniugi e a ciascuno di essi. Ancora prima, si può procedere a tutte le considerazioni necessarie per rispondere rettamente alle domande precedenti, solamente se è chiaro in cosa consista il vincolo del matrimonio dal punto di vista del diritto, cioè del bene comune.
In sede di questo ragionamento, per quanto alcuni credenti possano meravigliarsene, non è assolutamente rilevante approfondire in cosa consista il sacramento cattolico del matrimonio: per la vita di fede di chi appartiene alla Chiesa, l’amore coniugale e la missione del generare altre persone umane hanno una grande rilevanza religiosa, come è confermato dalla decisione di Cristo di elevare il matrimonio a sacramento della grazia di Dio. Ciò è tanto vero che la Chiesa insegna ai discepoli di Cristo che due battezzati non possono vivere in modo santo l’amore coniugale se non attraverso il sacramento del matrimonio. Nel caso, però, del disegno di legge che regola i Dico, il punto di vista cristiano sulla qualità di tale norma non riguarda la sua conformità alle esigenze della fede cattolica: il pensiero cristiano giudica questa norma cattiva per tutti, e non solo per i credenti, e lo fa perché questa norma non sembra conforme alle esigenze della giustizia e del bene comune della società italiana.

3. Perché il matrimonio gode del favore del diritto
Per capire se e in che misura l’unione affettiva di due persone costituisca una struttura umana che la società può e deve tutelare con il diritto e con leggi speciali, va chiarita anzitutto la definizione di matrimonio e la ragione per cui del matrimonio si dà, nelle civiltà della terra, proprio una simile definizione e non un’altra. Il matrimonio, infatti, è il caso concreto più rilevante di unione affettiva tra due persone, tutelata e promossa da leggi speciali. Ebbene, secondo il diritto di tutti i popoli e di tutti i tempi – recepito anche dalla Costituzione italiana nell’art. 29 – la società umana è fondata sulla famiglia, la famiglia sul matrimonio, il matrimonio sul vincolo pubblico tra amore stabile, differenza sessuale dei coniugi e procreazione. A questo si fa riferimento, sui mezzi di comunicazione, quando si parla di famiglia "tradizionale". In realtà, l’espressione è costruita in modo tale da suggerire implicitamente l’idea di altri possibili tipi di famiglia. Ma il diritto non li conosce. Ci sono realtà che "assomigliano" alla famiglia, che si chiamano per analogia famiglie: in senso stretto, però, di famiglia non c’è che quella originata dal matrimonio.
Perché proprio questa, dunque, è stata fino ad oggi la forma di famiglia e di matrimonio che lo Stato ha preso in considerazione, adottando leggi in suo favore ed in sua difesa? La ragione si trova guardando alla persona umana. Ogni uomo, prima che convivente o coniuge o genitore, è certamente un figlio. Ed ogni figlio è figlio di una coppia eterosessuale, alle cui cure affettive e materiali ha stabile diritto. Su questo dato – che non è oggetto di discussione perché appartiene alla struttura dell’essere umano in quanto tale – si fonda un’intuizione universale: il bene della vita umana e quel bene che è la famiglia fondata sul matrimonio eterosessuale sono saldamente vincolati l’uno all’altro, e ciò per natura, cioè da sempre e dovunque, e non per cultura, cioè a seconda delle usanze, delle etnie, delle latitudini e delle mode. La nostra civiltà, in altre parole, ha sempre ritenuto che esista una ben precisa forma di famiglia, radicata nella sostanza dell’essere umano in quanto tale: perciò tale forma di famiglia viene custodita dagli ordinamenti giuridici delle società e gode del favore del diritto, cioè di un trattamento speciale.
Quando si parla di diritti che non dipendono dalla cultura e che non ammettono eccezioni, si parla del cosiddetto diritto naturale. Esso ha precedenza su qualsiasi altra forma di legge e nessuna legge particolare può disconoscerlo o contraddirlo. Questo principio vale tanto per l’uomo religioso quanto per il laico. Un credente ritiene che la sorgente del diritto naturale sia Dio e lo rispetta come intangibile. Ma anche i non credenti riconoscono che c’è un "corpo di diritti" intangibili, che non dipendono da condizionamenti esterni all’uomo ma che gli appartengono in quanto persona. Anche i non credenti pensano che o questi diritti sono rispettati da tutti gli Stati e da tutte le legislazioni, o non esiste più alcun limite oggettivo e condiviso contro l’ingiustizia, la dittatura, il crimine. I non credenti e i credenti, per individuare i contenuti di questo corpo di diritti, sono guidati dalla ragione, e per rispettarli sono guidati dall’etica.
Ora, perché questo tipo di unione affettiva – il matrimonio – è fonte di diritti e di prerogative che lo Stato riconosce alla famiglia e ai coniugi? Quando un uomo e una donna si sposano – intendiamo civilmente, trascurando in questa sede l’eventuale vincolo sacramentale –, si assumono dei doveri molto impegnativi. Si impegnano infatti in via stabile alla coabitazione, alla fedeltà l’uno verso l’altro, all’amore e al rispetto reciproco, alla assistenza morale e materiale nelle difficoltà della vita, al sostegno nella buona e nella cattiva sorte. Inoltre, si impegnano ad accogliere i figli che nasceranno, ad averne cura, ad educarli e ad accompagnarli verso la maturità umana, a mantenerli materialmente. Per avere cura dei loro figli, spesso uno dei due membri della comunità familiare rinuncia ad alcune possibilità della sua carriera professionale o all’intera carriera stessa. Ambedue i coniugi investono la migliore parte delle loro risorse materiali e spirituali e dei loro risparmi potenziali o attuali, svolgendo una funzione da cui tutta la società trae beneficio. I figli di queste coppie sono cittadini che, oltretutto, in quanto contribuenti pagheranno anche le pensioni di chi non ha voluto avere figli e, a parità di guadagni, ha avuto un reddito disponibile più alto. Dal momento che queste funzioni sono di preminente importanza sociale – la società, infatti, esiste prima di tutto allo scopo di garantire la continuazione della specie umana e la dignità umana di tutti i suoi membri –, uno Stato deve mettere la famiglia nella condizione di poter svolgere tali funzioni e deve promuovere e tutelare la famiglia stessa con i mezzi che il diritto consente. Perciò, oltre ai diritti di cui sono titolari in quanto persone, i coniugi hanno anche altri diritti e godono anche di altre prerogative. Ciò, però, non accade in virtù del fatto dell’amore coniugale, ma in virtù del patto dell’amore coniugale, cioè a causa di una ben precisa assunzione pubblica e irrevocabile di impegni. Ad alcuni di questi impegni, oltretutto, nemmeno il divorzio ha il potere di porre fine.

4. Di quali conviventi si parla
Chiarito tutto ciò, possiamo valutare quanto accade nelle unioni affettive diverse da quelle sancite dal matrimonio. Anche nella convivenza, ovviamente, restano validi i diritti che i conviventi hanno in quanto persone: nulla può, per nessun motivo, privare un uomo di tali inalienabili prerogative. Il fatto di vivere in coppia, tuttavia, è sorgente automatica di ulteriori prerogative? Il disegno di legge che regola i Dico suppone che così accada e stabilisce uno speciale favore del diritto nei confronti dei conviventi, per quanto riguarda alcune tematiche.
Il disegno di legge del governo, peraltro, non riconosce diritti e privilegi a qualsiasi tipo di unione tra persone in assenza di matrimonio. Le unioni giudicate rilevanti devono avere alcune caratteristiche: essere in atto – coinvolgere due persone e non di più – dipendere da un’unione affettiva – escludere il primo grado in linea retta di parentela e di affinità. Tali limitazioni, a dire il vero molto larghe, impediscono di applicare la norma a coppie costituite da un genitore e un figlio, mentre ammettono il caso di un nonno e un nipote, come quello di zio e nipote. Sono inoltre escluse le unioni di tre o più persone, cioè in generale la poligamia. Sono infine escluse le unioni di due persone che convivono per solo scopo di mutua assistenza e solidarietà.
Quanto al primo genere di coppie legate da vincoli di parentela, sembra che le leggi esistenti già tutelino, sostanzialmente, gli interessati: non si vede, in tal senso, la necessità di una nuova norma.
Quanto all’esclusione della poligamia, essa sembrerebbe supporre il principio che l’unione affettiva "more coniugali" tra più di due persone non sia un bene per la società (o almeno sia estranea alla nostra cultura); ma tra le ragioni che hanno condotto il governo ed una parte delle forze politiche che lo sostengono a proporre questo testo di legge, nessuna è sufficiente per rifiutare, nel prossimo futuro, a chi ne facesse richiesta per convinzione personale e per libera scelta, di avere dallo Stato un riconoscimento giuridico alla famiglia fondata sulla poligamia. E prima o poi una simile richiesta verrà avanzata certamente.
Quanto, inoltre, alla terza esclusione, non si vede perché due persone che decidono di coabitare per aiutarsi reciprocamente vengano ignorate dal disegno di legge che regola i Dico, a meno che risultino legate da una unione affettiva. Certo che il mutuo aiuto è causa e conseguenza di benevolenza reciproca tra due persone, ma non è detto che questa benevolenza reciproca sia la causa della loro coabitazione, né che essa sia avvertita dai due interessati come preminente, né che essi vogliano che sia confusa con l’unione tra due conviventi che vivono insieme in quanto innamorati. Dal momento che coppie di natura solidaristica e non affettiva esistono, non è conforme a giustizia che la norma proposta dal governo le escluda o le obblighi a dichiararsi di natura affettiva.
Fino a qui, le considerazioni riguardano i beneficiari del disegno di legge che regola i Dico. Sulla esplicita inclusione delle coppie omosessuali tra tali beneficiari, invece, si tornerà oltre. Ora si tratta di entrare nel merito dei benefici previsti dalla norma.

5. I diritti e le prerogative individuati dai Dico esistono?
Alcuni dei benefici che questo disegno di legge vorrebbe attribuire ai conviventi sono già previsti e ordinati dal diritto esistente. È già possibile, ad esempio, assistere il convivente in ospedale o in carcere o essere interpellati in caso di possibile espianto degli organi, così come è già possibile subentrare nel contratto di affitto e persino diventare eredi della quota di eredità che è legittimo assegnare per testamento a chi si desidera. Non sembra, perciò, necessario un nuovo testo per regolare e riconoscere i diritti già tutelati dalle normative esistenti.
La norma prevista dal governo, però, stabilisce per i conviventi anche altri diritti e benefici, soprattutto di tipo economico, in ordine al favore concesso ai conviventi nel concorrere per l’edilizia popolare, all’acquisizione del diritto di soggiorno, al diritto di successione patrimoniale, all’obbligo di versare gli alimenti al convivente, alla reversibilità della pensione – anche se quest’ultimo punto non è esplicito, perché rinvia alla futura riforma del sistema previdenziale.
Su tutte queste attribuzioni il testo della norma è contrario alle esigenze della giustizia. Trascuriamo pure, volendo, le ipotesi di facili raggiri che potrebbero essere organizzati, ad esempio, da spregiudicate badanti, che, con il banale meccanismo di registrazione anagrafica previsto dalla norma, potrebbero ingannevolmente assicurarsi, in un sol colpo, diritto di soggiorno, subentro nell’affitto, metà del patrimonio in eredità e anche la pensione reversibile del loro ignaro assistito.
Si è già chiarito, analizzando la natura del matrimonio e la ragione per cui la famiglia gode del favore del diritto, che il fatto dell’amore non esige automaticamente dei benefici che impegnano lo Stato.

L’amore tra due persone è un bene, come lo è anche l’amicizia, ad esempio. Il fatto dell’amore, però, non è sorgente di diritti ma di dedizioni. Non procura privilegi – semmai, l’amore è un privilegio che arricchisce la vita – , ma procura responsabilità. O le persone protagoniste di una unione affettiva si assumono gli impegni reciproci e le funzioni sociali che interessano il bene comune di una società – per cui quel vincolo assume una rilevanza giuridica –, oppure non vi è ragione sufficiente perché nascano nuovi diritti e soprattutto perché lo Stato debba garantirli. Lo Stato, infatti, non ha l’obbligo di garantire tutte le comodità e i benefici di cui due persone vorrebbero godere, ma solamente quelle che impegnano moralmente la società e che spettano di diritto a quelle persone. Per fare un esempio, il principio della reversibilità della pensione nasce come parziale risarcimento per le funzioni sociali che la famiglia, fondata sul matrimonio, esercita: assumendosi infatti l’impegno di mantenere, istruire ed educare la prole, uno dei due coniugi spesso sacrifica la sua carriera lavorativa e non può maturare una pensione sufficiente per il proprio mantenimento futuro.
Ora, a questa volontaria rinuncia in favore del bene dell’educazione e della famiglia, la società è moralmente obbligata a rispondere con una tutela pensionistica di quel coniuge, dal momento del decesso del consorte. E quel coniuge non ha semplicemente diritto a una qualche pensione, ma precisamente a quella del consorte, perché fu per fedeltà al patto matrimoniale e alle sue esigenze che egli perse la possibilità di avere una propria consistente pensione. Nel caso di due conviventi, che non si sono vincolati con alcun patto e che non intendono vincolarsi con alcun patto, anche fossimo in presenza di uno straordinario vissuto affettivo, non c’è ragione obiettiva per cui la società debba attribuire a costoro i diritti che riconosce a una coppia sposata. L’ex convivente che piange la morte del compagno con cui ha trascorso un certo – per ora imprecisato – numero di anni, se fosse indigente, dovrà avere le tutele che spettano a un cittadino indigente, in quanto persona, ma non quelle che derivano a un consorte in quanto vedovo. Se poi si guarda ad altre prerogative stabilite dalla norma del governo, come– appunto – quelle di natura patrimoniale, non si vede perché lo Stato debba provvedere con il diritto a rendere un convivente automatico erede dell’altro, quando costui non lo ha fatto per testamento: l’amore interpersonale non è forse un legame tale per cui, se io ti amo, io rispondo di te, prima ancora dello Stato? Non spetta prima di tutto al convivente, in virtù del fatto dell’amore, provvedere con i mezzi che ha al futuro dell’amato, oltre che al suo fugace presente? E se, invece, un convivente non avesse voluto sposare il compagno proprio perché non intendeva impegnare le proprie sostanze per il futuro con un vincolo giuridico e a fronte di un affetto che non dava ancora garanzie di stabilità? In tal caso, la legge farebbe ancora violenza alla libera e positiva esclusione intesa da quella persona, o comunque farebbe un favore a chi, in modo disonesto, potrebbe figurare erede senza che il beneficante possa più opporsi, anche se il comportamento del beneficante estinto intendeva precisamente opporsi ad un simile esito.
Vanno poi considerate anche le conseguenze concrete delle convivenze, ai fini della loro regolamentazione. Con il tempo, da molte convivenze eterosessuali nascono dei figli. Ciò accade in più del 50% delle coppie di fatto. I figli sono i membri più deboli e indifesi del corpo sociale: perciò devono essere sempre protetti dal diritto in via prioritaria. Ora, quando due adulti generano un figlio, spetta a loro, anzitutto, offrire la necessaria stabilità di cure affettive, materiali ed educative cui la prole ha inviolabile diritto – non a caso, in simili circostanze molti conviventi decidono di sposarsi. Che ne è, nel disegno di legge sui Dico, dei doveri verso i figli, problema delicatissimo e molto più rilevante della questione dei soldi? Nemmeno il principio che questo problema vada risolto dalla coppia di genitori viene preso in considerazione. Nemmeno l’avvento di un figlio produrrebbe l’assunzione formale e irrevocabile di qualche impegno da parte di questi lieti e spensierati conviventi.
Ma anche se una coppia di fatto diventasse una coppia di genitori di fatto, e, senza sposarsi e senza alcun patto che li impegni, facesse per tutta la vita il possibile per generare ed educare i figli e davvero provvedesse a tutte le funzioni sociali a cui è tenuta a provvedere una famiglia fondata sul matrimonio, bisogna rilevare che comunque, pur senza volerlo, quella coppia ha recato alla società e alla prole due danni: ha insegnato che le alleanze, i patti, gli impegni stabili ed irrevocabili tra persone e con la società non servono e non hanno reale importanza; ha testimoniato che due genitori non sono moralmente tenuti a garantire stabilità di dedizione verso i figli e l’uno verso l’altro. Che abbiano offerto di fatto tale stabile dedizione non cancella comunque un altro fatto: non hanno mai voluto assumersene l’impegno. Una educazione che trasmette simili visioni dei rapporti umani è di oggettivo danno alla società e alla stessa vita dei figli che l’hanno ricevuta.

6. Il danno recato all’istituto del matrimonio e della famiglia
Quando una norma riconosce un valore sociale a coppie di fatto fondate sull’affetto ma non su un patto di impegno stabile, cioè sul matrimonio, e attribuisce a tali coppie di fatto le prerogative riservate ai coniugi, quella norma reca un danno alle famiglie e avvilisce il matrimonio.
Discriminati da questo testo di legge, infatti, sono proprio i coniugi, legati tra loro a causa di un vero matrimonio. Costoro hanno ottenuto alcuni diritti per il fatto che hanno assunto alcuni impegni nel matrimonio stesso. Se altra gente ottenesse i medesimi diritti senza assumersi i medesimi doveri, allora si sta stabilendo, implicitamente, che anche i coniugi, d’ora in avanti, ottengono quei diritti per il solo fatto che coabitano con affetto, e non più perché si sposano. Dunque, il matrimonio in quanto tale viene configurato, dalla nuova situazione giuridica, come un atto inutile, di puro carattere rituale. Conferendo diritti e privilegi ai conviventi non si tolgono diritti e privilegi ai coniugi, ma si toglie di fatto ai diritti e ai privilegi dei coniugi il motivo per cui esistevano, cioè l’istituto del patto matrimoniale. Questo sì sarebbe un atto di discriminazione, magari voluto con una campagna ideologica costruita per convincere la società che, senza tale legge, si discriminerebbe i poveri conviventi non sposati, solo perché non si sposano. Ora, discriminare significa rifiutare di riconoscere diritti o prestazioni che sono dovuti per giustizia a qualcuno. Ma negare la "forma matrimoniale" a convivenze eterosessuali o omosessuali che non sono né possono essere matrimoniali in senso pieno, è un atto richiesto dalla giustizia, non ad essa contrario.
Qualcuno potrebbe osservare che, se due conviventi lo decidessero, potrebbero non usufruire dei vantaggi offerti da questa legge. Non sembra perciò che possa essere ingiusta una legge che non impone qualcosa di nocivo, ma che si limita ad offrire degli eventuali beni a chi, se ritiene, può farne a meno. Anche qui c’è un errore: l’attribuzione di diritti e privilegi a qualcuno a cui non spetta goderne, è atto contrario alla giustizia. E non è mai atto innocuo: anzitutto un provvedimento di tale natura provoca un danno economico. L’attribuzione di diritti e prerogative, infatti, generalmente comporta dei costi per lo Stato. In questo caso li comporta certamente – sono previsti nell’ultimo articolo del testo. Ma le risorse dello Stato sono limitate: se occorre dunque trovarne di nuove, occorre toglierle ad altri capitoli. Nel caso specifico, le risorse verrebbero tolte proprio ai capitoli riservati alla famiglia, che in Italia già riceve scandalosamente poco. Per non parlare dell’aspetto previdenziale: non abbiamo nemmeno la certezza che i nostri figli possano ricevere la pensione – considerando gli squilibri strutturali del sistema previdenziale e il crollo demografico italiano –: con quali fondi (e soprattutto con quale coraggio) pensiamo di poter dare pensioni reversibili anche ai conviventi?
Il danno più grave che questa norma, se vedesse realmente la luce, recherebbe alla società italiana, è di ordine culturale. Il legislatore non può ignorare il valore educativo della legge: le norme non hanno solamente la funzione di riconoscere, regolamentare e tutelare i diritti e i doveri; le norme sono produttrici di cultura. Incidono sulla mentalità e sui costumi di una società, inducendone modificazioni. Gli esempi sono numerosi, ma basta prendere in considerazione il caso del divorzio. Dalla funzione di tutela giuridica dei casi dolorosi in cui due coniugi devono poter proteggere la propria persona, liberandosi da un vincolo divenuto per diverse ragioni inaccettabile, la legge sul divorzio ha prodotto una cultura divorzista. Oggi, soprattutto nelle giovani generazioni, è offuscato il concetto di matrimonio: sempre tralasciando in questa sede il discorso relativo al sacramento cattolico del matrimonio, il punto è che per la maggior parte della gente e dei giovani il matrimonio, dal punto di vista civile, non ha la strutturale caratteristica della stabilità. Sposarsi civilmente, nella cultura odierna, significa in media "sposarsi per ora", e non più "sposarsi per sempre". Eppure, il concetto di matrimonio, anche dal punto di vista civile, ha di natura sua il carattere di impegno stabile e irrevocabile. Così, una legge ha diffuso, ben al di là della previsione del legislatore, un comportamento, che a sua volta ha prodotto una mentalità, una cultura. Il disegno di legge che regola i Dico, in questo senso, produrrebbe e alimenterebbe la cultura della deresponsabilizzazione: il costituirsi in società, dalla elementare società domestica a quella municipale a quella nazionale a quella mondiale, non comporta più l’assunzione di impegni verso l’altro, la garanzia di disponibilità per il prossimo, il patto di mutua e incondizionata solidarietà. Unica funzione dello Stato sarebbe garantire a ogni individuo la massima soddisfazione possibile di tutte le sue esigenze e di tutti i suoi desideri (chiamati però "diritti"), con l’unico limite che non comportino violenza diretta su altri simili (e anche qui si deve ricordare che, imboccata questa strada, non vi è più nulla, in linea di principio, di sufficiente per scongiurare approdi biechi e tragici; recentemente, in Olanda, è nato un partito che domanda allo Stato di dichiarare legale la pedofilia: tanto, se il minore è consenziente, perché mai la società dovrebbe negare a due individui di perseguire quello che la loro "natura" desidera? Dopotutto, anche i pedofili potrebbero essere nati tali).

7. Eventuali problemi vanno risolti adeguando il Codice civile
A questo punto si impone una valutazione complessiva sul disegno di legge che regola i Dico, di grave contrarietà alle esigenze del bene comune della società e alle esigenze della giustizia. A parte il fatto che, nella forma in cui è scritto tale provvedimento, si profilano all’orizzonte molti casi conflittuali e provocati dalla vaghezza di un testo che non valuta attentamente tutte le conseguenze di una simile scrittura.
Ad ogni modo, se vi fossero eventuali diritti delle persone conviventi che non sono adeguatamente tutelati dalle norme vigenti in Italia, e che la norma voluta dal governo vorrebbe tutelare, la soluzione andrebbe cercata piuttosto modificando e migliorando il diritto comune e dovrà comunque fare capo ai diritti della persona umana, non ai diritti della coppia in quanto tale. Era possibile – in sostanza – provvedere ad alcune problematiche semplicemente mettendo mano al Codice civile. L’impianto giuridico del testo sui Dico, invece, snatura il diritto coniugale, direttamente o indirettamente, e inoltre sbaglia nel fondare alcune accettabili prerogative non sulla solida e giusta base dei diritti della persona, ma su quella inconsistente, contraddittoria e ingiusta dei diritti della coppia di fatto, come se questa ne avesse altri rispetto a quelli dei suoi due singoli componenti.

8. Il caso dei conviventi omosessuali
Ma in realtà a chi interessa questo disegno di legge? Le coppie di fatto eterosessuali o si lasciano, o si sposano, oppure – in piccolissima percentuale – continuano a convivere. Il disegno di legge non può riguardare né le prime, né le seconde.
Quanto alle terze, esse si suddividono in coppie che possono sposarsi e in coppie che non possono sposarsi. Le coppie che possono sposarsi e vogliono farlo, ma rinviano sine die la decisione del matrimonio, vanno incoraggiate dalla società a superare gli ostacoli materiali o psicologici che impediscono loro di raggiungere l’obiettivo desiderato, soprattutto se ad allontanare la decisione del matrimonio fossero preoccupazioni di carattere economico.
Le coppie che possono sposarsi ma non vogliono farlo – ad esempio, perché non riconoscono alcun valore al patto civile del matrimonio, oppure perché non intendono vincolare le loro persone o i loro patrimoni con un vincolo di rilevanza giuridica – vanno rispettate dallo Stato nella loro libertà di scelta. Se infatti si stabilisse – modificando il testo del disegno di legge – che due conviventi devono in qualche modo legarsi, sia pure temporaneamente, sia pure con una forma di vincolo giuridico diverso dal matrimonio, allora il diritto farebbe violenza alle persone e alla loro libertà. Ora, quando due persone non intendono essere vincolate giuridicamente, si potrà apprezzare o meno questo loro intendimento, ma il diritto deve non occuparsene.
Prendiamo infine in considerazione le coppie che non possono sposarsi – a parte quelle che temporaneamente devono aspettare per poterlo fare: tali coppie, dopo un certo tempo, potranno sposarsi, e quindi rientrano nelle categorie sopra individuate. Dobbiamo escludere le coppie incestuose (a meno che, in nome del progresso e del pluralismo, si voglia discutere anche su questo). Restano perciò solo le coppie omosessuali. Questo è, forse, il vero problema cui il provvedimento vorrebbe dare soluzione?
Si deve giudicare la questione dal punto di vista del bene comune. Ancora una volta, cioè, a prescindere dalla valutazione religiosa sull’omosessualità: valutazione che comunque, per quanto riguarda la dottrina cattolica, non considera lo stato di omosessualità un peccato, ma gli eventuali atti omosessuali o i cosiddetti "matrimoni" omosessuali come atti intrinsecamente disordinati e negativi per il bene comune della società. Ora, le unioni omosessuali non possono, nemmeno analogicamente, svolgere quelle funzioni sociali per cui nasce la famiglia ed esiste il matrimonio, e che impegnano lo Stato alla tutela giuridica di quel vincolo e dei suoi contraenti. E forse i conviventi omosessuali non cercano tanto una simile tutela, quanto piuttosto un riconoscimento simbolico del loro pubblico "diritto di cittadinanza". Ma il diritto non esiste allo scopo di offrire riconoscimenti simbolici: esiste allo scopo di offrire risposte pubbliche ad esigenze sociali che vanno al di là della dimensione privata dell’esistenza. Il testo del governo, comunque, scontenta quelle coppie omosessuali che non attendevano un testo così debole nella tutela giuridica della loro condizione. E tuttavia si tratta di un testo pone delle insidiose premesse, per cui è facile immaginare che per ora ci sarebbe questo testo, poi si aprirebbe gradualmente alle adozioni, poi ad un rito di matrimonio, ecc.
C’è una grande differenza tra il comportamento omosessuale come fatto privato e lo stesso comportamento come relazione sociale legalmente riconosciuta, approvata e tutelata, tale da diventare una nuova figura nel panorama delle istituzioni di una società. Una norma che riconosca giuridicamente e pubblicamente le unioni omosessuali potrebbe persino incoraggiare l’omosessualità e incrementare una cultura omosessuale o eticamente relativistica: si dimentica forse che in diversi individui l’omosessualità è un fenomeno relazionale, più che identitario, e non è dovuto a cause fisiologiche, ma a condizionamenti culturali e psicologici? si può ignorare l’effetto di un ambiente obiettivamente "confuso" sullo sviluppo di un preadolescente e di un adolescente, sapendo che in ogni uomo esiste una latente potenzialità omosessuale, facilmente disorientabile in quelle delicate stagioni della crescita?

9. Un disegno di legge non necessario, un discernimento indispensabile
Infine, si osservi anche che l’atto con cui il governo ha voluto varare un simile disegno di legge non corrisponde alle reali urgenze del Paese. La precedenza assoluta, in una società e nella nostra in particolare, va data alla tutela e alla promozione della vita. Quindi viene la famiglia, che, essendo fondata sul matrimonio, è della vita l’indispensabile ambito. E le famiglie che affrontano la precarietà economica o che soffrono l’abbandono sociale non sono un problema secondario, in Italia. Che la questione delle coppie di fatto preceda l’impegno per le politiche familiari, le danneggi potenzialmente ed impegni il governo stesso, è ciò stesso contrario alle esigenze della giustizia: il messaggio che il governo e una parte del Parlamento lanciano alla nostra società, in tal senso, è preoccupante.
Pare, invece, che alcuni siano preoccupati perché i cattolici, i vescovi e in generale la Chiesa intervengano nel dibattito su questo disegno di legge e interpellino la ragione e la coscienza dei politici. La Chiesa, in questo caso come in altri, parla perché le interessano le cose di Dio: e ciò che sta a cuore a Dio, è precisamente il bene dell’uomo, di ogni uomo, del cattolico e del non cattolico, del devoto e dell’ateo, del giusto e dell’ingiusto, dell’italiano e dello straniero, di chi vuole il proprio bene e persino di chi vuole il proprio male. Promuovere questo è, per la Chiesa, anzitutto un obbligo, un dovere supremo, prima che un diritto.
È dovere della Chiesa parlare agli uomini e alle società. Ciò non solamente se si tratta di basi militari o quando insegna che la pena di morte è immorale o che la guerra è sempre un’avventura senza ritorno, ma in tutti i campi di rilevanza morale o spirituale.
Ed è dovere della Chiesa insegnare ai fedeli la dottrina della fede e le sue esigenze morali. È dovere della Chiesa ricordare che è legittimo per la coscienza cristiana scegliere tra diverse opzioni politiche compatibili con la fede e con la legge morale naturale – e la Chiesa non può obbligare nessun cristiano ad un’unica scelta, in questo genere di casi –; ma allo stesso modo, è illegittimo per la coscienza cristiana scegliere un’opzione politica concreta che contrasti con la legge morale naturale o che sia incompatibile con la fede. Non si potrà mai, infatti, giovare al vero bene comune se si andrà contro la legge morale naturale, mentre si troverà sempre ad operare per il vero bene dell’uomo chi segue l’autentico insegnamento cristiano, mostrandone razionalità e bellezza anche a chi non possiede il dono grande della fede.