Domenico Bonvegna

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Nella presentazione presso il Palazzo Jung a cura della Provincia di Palermo, del libro Sicilia 1860 - 1870. Una storia da riscrivere, edito da Isspe, l’autore Tommaso Romano, prendendo la parola ha sottolineato, che anche se la storiografia ufficiale non lo ha scritto, la Sicilia ha avuto il suo brigantaggio, le sue rivolte di popolo, sia nelle città, che nei piccoli centri contro il nuovo Stato unitario sabaudo. E se nei decenni prima, negli anni delle cosiddette insorgenze del popolo italiano contro gli eserciti francesi di Napoleone, la Sicilia non insorse, adesso con il cosiddetto Risorgimento, definito da O’ Clery, la Rivoluzione italiana, la Sicilia insorge eccome. Il libro di Romano partendo dall’impresa “garibaldina”, che fu sostanzialmente un’operazione di pirateria internazionale, sostenuta dal piccolo Piemonte e dall’Inghilterra, parte dalle stragi di Bronte, poi affronta l’argomento del naufragio e della morte di Ippolito Nievo, che aveva preso le distanze da ciò che riguardava l’Esercito Meridionale di Sicilia e da come stava evolvendo la situazione politica e militare dell’Italia. Infatti, il Nievo non condivideva più come si stava comportando il nuovo Stato. Ecco perché è stato fatto sparire insieme al suo Resoconto sulla gestione dell’impresa garibaldina.

Segue il racconto e siamo al 3 capitolo, sull’ultima eroica resistenza borbonica della Real Cittadella di Messina, caduta il 13 marzo 1861. Romano per questo argomento rinvia al recente volume curato insieme a Nino Aquila, La Real Cittadella di Messina 13 marzo 1861 l’ultima bandiera borbonica in Sicilia (Thule, Palermo 2011).

Nel 4 capitolo il libro si occupa dei plebisciti farsa che si svolsero il 21 ottobre 1860, con ridicole votazioni, senza alcuna segretezza di voto, fra pochi intimi notabili, dei quali molti garibaldini ammessi al voto in più sezioni elettorali. Gli elettori furono 575.000 (il 25% di 2.232.000), votarono 432.762. Di cui soltanto 667 contro l’annessione allo Stato sabaudo. Si racconta di un villano che gridò: Viva Francesco II…Fu ucciso all’istante. Vittorio Emanuele II presente a Palermo per la cerimonia unitaria, assicurò ai siciliani di instaurare un governo di riparazione e di concordia. Parole paradossali in confronto a quello che succede nei giorni successivi. “Il governo regio - scrive Francesco Renda - fu tutto che di riparazione e di concordia(…)lo Stato unitario nell’isola presentò subito caratteri autoritari(…)

Alle violenze e repressioni ai danni delle popolazioni siciliane, volute prima dai garibaldini e poi dai regi piemontesi in funzione di conquista e di dominio, rispondono soprattutto, gli strati popolari, a cominciare dal clero intransigente, che oppone una vera e propria resistenza, con caratteri diversi il più delle volte dai fenomeni di brigantaggio meridionale. Tuttavia sono caratteri significativi da farli ricordare “ai troppi che ancora tendono a minimizzarli come episodi localistici, oggetto di curiosità di storiografi municipali destinati ad essere relegati fra le sommosse anarchicheggianti e utilitariste, capeggiate e strumentalizzate da lestofanti o da aristocratici e clericali occulti e reazionari”.(pag.54)

Il 5 capitolo fa riferimento al 1862, un anno nodale per l’intensità delle repressioni dell’esercito del Regno d’Italia sui civili. In questo anno i latifondisti acquistano molto e si arricchiscono, mentre i braccianti agricoli si impoveriscono e così molti giovani si diedero alla macchia anche per sfuggire alla coscrizioni obbligatoria entrando, per necessità o per combattere gli invasori piemontesi, nelle bande di campagna. Secondo Romano occorre esaminare attentamente il fenomeno isolano del banditismo: “da un lato i contadini poveri esasperati uniti ai piccoli proprietari disingannati da un fisco mai tanto esoso, e dall’altro, gran parte di quanti, riuniti in bande, spronavano la povera gente alla rivolta sociale e politica. In tutti vi era il sistematico rifiuto della coercizione derivata dall’unificazione e la palese delusione rispetto alle speranze e alle illusioni del 1860”. Pertanto, mettere in luce queste cose, “non mira a donare un’aureola romantica alle bande dei briganti siciliani, tende solamente ad evidenziare come certi mali antichi si moltiplicarono anche esponenzialmente, al punto che una ingente massa di uomini, e in qualche caso anche di donne, si organizzarono, con l’aiuto delle popolazioni indigene, in cima a montagne aspre e inaccessibili, per far fronte alla feroce persecuzione poliziesca che travalicava il mantenimento dell’ordine pubblico divenendo, assai spesso, licenza deliberata e violenta gratuita a spese, non solo dei briganti, ma anche delle popolazioni e financo dei bambini inermi”. (pag. 75)

Il nuovo Stato unitario, attraverso i prefetti venuti da Torino, è incapace di comprendere le tradizioni, i costumi, la psicologia, la religiosità del popolo siciliano, inoltre ancora più grave è quell’idea folle di voler esportare e imporre un modello impossibile per i siciliani, quello del vecchio Regno Sardo. Il professore Romano tranquillamente ammette che il brigantaggio siciliano si sovrapponeva in modo nuovo dopo l’unità alla delinquenza comune, raggruppando renitenti, scontenti, reduci di azioni oppositive al nuovo governo locale e nazionale, sradicati, ma anche ex soldati e impiegati del passato regime borbonico…”.(pag. 76)

Il 17 agosto, Palermo e tutte le provincie della Sicilia furono dichiarate in stato di assedio. Il 28 agosto tocca a Catania, “si intima di non portare armi in città e che in caso di tumulto, chi fosse arrestato con le armi indosso sarà fucilato”. Interessante la rivolta popolare che scoppiò a Castellamare del Golfo, cittadina della provincia di Trapani. Una insorgenza contro “le tasse esose e la leva obbligatoria, schierata ad affrontare il comune nemico, raffigurato da rappresentanti militari e civili del nuovo stato, visti come oppressori decisi a tutto”.(pag.80) Per sedare la rivolta il Sottoprefetto di Alcamo chiese rinforzi a Palermo che mandò due navi da guerra pieni di soldati. Tra i giustiziati va ricordata Angela Romano, una bambina di appena nove anni.

La repressione del generale Savona che si scagliò contro i renitenti di Castellamare, Alcamo e Monte San Giuliano, fu giudicata un “un bene per la Patria, per far uscire la Sicilia, “dal ciclo che percorrono tutte le nazioni dalla barbarie alla civiltà”. In questo capitolo si accenna ai fatti di Fantina, in provincia di Messina, vicino Barcellona, dove alcuni sbandati volontari garibaldini, trovano rifugio nel piccolo centro agricolo, un reparto militare al comando del maggiore Giuseppe C. De Villata, li cattura e subito dichiarandoli disertori li fucila. Secondo mio fratello, i volontari di Fantina sono morti probabilmente senza percepire il motivo. Sull’eccidio di Fantina, Antonio Ghirelli scrisse: “l’episodio di Fantina rimase del tutto sconosciuto alle cronache ufficiali del risorgimento italiano(…)mentre avrebbe dovuto suggerire severe riflessioni sulla ferocia con cui i vincitori imposero la loro legge nel Mezzogiorno, tanto nei confronti del ‘brigantaggio’ più o meno filoborbonico, quanto e forse ancor più rigorosamente rispetto agli esponenti del Partito d’Azione, ai volontari garibaldini e agli affiliati alla Giovane Italia”.(pag. 88)

Pensavo di poter concludere, ma ho bisogno di un altro intervento. Alla prossima.

 

 

Rozzano MI, 21 marzo 2012

S. Nicola di Flue                                                                                            DOMENICO BONVEGNA

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