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L’aborto non decreta solo la fine del bambino che è stato concepito e sta già vivendo. Stabilisce anche la fine di un’altra vita, che spesso decide l’aborto proprio per proteggere la propria esistenza: quella della coppia.

La scelta di abortire è il sigillo forse più significativo e impressionante di quella “crisi del dono” che caratterizza la coppia tardomoderna e l’“individuo”, entità cui il nostro tempo è massimamente devoto. Il rifiuto del dono della vita a un essere umano cui già abbiamo dato origine, nella ricerca del piacere personale, è infatti la più forte delle negazioni del dono di sé, e se non viene portato alla coscienza nel suo vero significato (come appunto la cultura abortista impedisce di fare) è destinato a segnare profondamente la capacità di dare, e di darsi, della persona e della coppia che lo pratica.

Negare il dono di una vita già data fonda inesorabilmente il rifiuto di tanti altri successivi doni, che sono alla base delle relazioni con l’altro, e con gli altri in generale.

Non si tratta, tuttavia, di una vicenda unicamente psicologica, né tanto meno sociologica. Si tratta di una vicenda metafisica. La capacità di donarsi all’altro, infatti, viene all’uomo dal riconoscimento della sua natura di creatura a cui il Padre ha donato la vita, nella forma umana. Come ricordò Giovanni Paolo II, il Padre «li creò maschio e femmina. Per grazia di Dio ricevettero una virtù. Presero dentro di sé, nella dimensione umana, questo reciproco donarsi che è in lui». Il processo di secolarizzazione, però, quel graduale allontanamento di Dio dalle nostre vite che ha caratterizzato la modernità, ha anche atrofizzato, ci ha fatto dimenticare, dismettere la virtù del dono. Vale a dire quella capacità di darsi che si regge sull’aspetto trascendente, non “secolare” della nostra identità: l’essere appunto creature che non si sono messe al mondo da sole, ma ci sono state messe da un padre e una madre, all’interno di un disegno di creazione e creaturalità più ampio, che ha la sua origine nel Padre.

L’allontanamento dal Padre e del Padre, il processo di secolarizzazione, ci ha voluto far credere di essere degli “individui” e non delle creature che originano da un contesto fisico e simbolico che ha al proprio centro il dono della vita e l’amore per essa e per le altre creature.

L’aborto, come e più del divorzio, che tuttavia (e non a caso) lo accompagna in questo sviluppo della crisi del dono, è l’atto che con più forza celebra il delirio di onnipotenza dell’individuo moderno. Egli si crede (la cultura abortista gli fa credere di essere) così impermeabile ad ogni dipendenza affettiva da poter negare al proprio figlio il dono che ha dato origine alla sua stessa vita.

Naturalmente non è così, e questa autointerpretazione onnipotente, la cui difesa è alla base della cultura dell’aborto, produce poi danni e malesseri che ogni figura di cura conosce bene, e che solo la presa di coscienza della vera origine dell’atto (che non è mai una difficoltà materiale, ma questo smarrimento del dono, e del Padre, dentro di sé) potrà poi curare.

Senza questa presa di coscienza, anche la coppia non sopravvive, perché la relazione è fondata sul dono di sé: quello stesso sapere che viene dal Padre e che consente che il bimbo concepito nasca, e viva.