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Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, dovrebbe proporre alle Camere una legge di un solo articolo: "È fatto divieto a chi eserciti attività giurisdizionale nella magistratura penale e civile, a qualunque livello, di candidarsi alle elezioni prima che siano scaduti cinque anni dalla cessazione del servizio".

Con la candidatura del pm Luigi De Magistris nelle liste di Antonio Di Pietro alle europee, infatti, si è valicato ogni limite di decenza politica e istituzionale. Ha detto solennemente il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Nicola Mancino, che un pm dovrebbe lasciare la toga una volta candidato. Ma lo ha detto mentre votava disciplinatamente e corporativamente il distacco per aspettativa di De Magistris, in modo tale che il pm possa riprendere il servizio subito dopo la fine della sua avventura politica. E lo ha detto con una motivazione sbagliata: nell'atto di candidarsi, questo il pensiero di Mancino, un magistrato fa una scelta di parte e dunque deve essere poi riciclato in altri ambiti della pubblica amministrazione, ma non dove si indaga e si giudica e si ha il potere di togliere la libertà al cittadino.

Il fatto evidente a tutti è che De Magistirs non diventa di parte perché si candida, bensì si candida perché è diventato di parte nel suo mestiere di magistrato. Oggi questo pm trasferito dai suoi pari per il modo non ortodosso di condurre le inchiestone polverone antipolitiche dà una motivazione eroica della sua discesa in campo: non mi hanno lasciato lavorare, non mi hanno lasciato fare giustizia, e allora io faccio come Di Pietro, e con Di Pietro, io entro in politica per moralizzare il Paese. Ma è una motivazione pelosa.

Non ha portato a casa neanche un'oncia di giustizia, il dottor De Magistris, e non è per aver fatto con rigore il suo mestiere che è stato trasferito. Il pm ha molto parlato, molto denunciato in tv, molto arringato la folla del circo mediatico-giudiziario, molto insinuato e romanzato contro un potere temibile che lo ostacolava, molto influito sulla politica (fino a preparare il massacro del ministro Clemente Mastella, che alla fine fece cadere Romano Prodi); egli ha sedotto quel pubblico non pagante mai sazio del teatrino forcaiolo con i suoi finti leoni e finti gladiatori, con la toga sulle spalle e decretando da Salerno un'insana guerra o faida di tutte le toghe contro tutte le toghe in Calabria, e adesso quel pubblico vuole possederlo come popolo elettore. C'è qualcosa di più contrario a una corretta amministrazione della giustizia di questo spettacolo di commistione dell'azione penale e della politica la più faziosa, la più obliquamente argomentata e perseguita?

Il capostipite di questa tendenza degenerativa è ovviamente Antonio Di Pietro. È lui, oltre che l'ospite grato di De Magistris nelle liste dell'Italia dei valori, il simbolo della giustizia che si fa lotta politica, prima nei processi e nei loro unilateralismi mediatici, poi nel confronto elettorale. Il fenomeno ebbe con Tonino una sua strana grandezza, nel senso che quel piccolo pm destinato a diventare capopartito aveva abbattuto qualcosa di rilevante, una repubblica retta per mezzo secolo da grandi partiti storici che nei decenni si erano identificati con le istituzioni (la Dc, il Psi, il Psdi, il Pli, il Pri). Con la candidatura di De Magistris si scende di livello: il passo legittimo del pm sembra il frutto di un piccolo spirito di rissa televisiva, di una spavalderia e di una impudenza generiche. E il danno sicuro riguarda la credibilità della giustizia togata: come ci si può fidare del giudizio imparziale dei magistrati quando si moltiplicano le affiliazioni di parte dei campioni dell'azione penale?
L'arcitaliano di Giuliano Ferrara
Tratto da Panorama del 20 marzo 2009