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 Si ritorna a parlare della questione meridionale, per molto tempo era stata rimossa, nella speranza che, grazie al mercato e alla globalizzazione, il problema dell’arretratezza del Mezzogiorno si risolvesse da solo.

Adesso l’Italia scopre che la questione meridionale non è scomparsa ma si è, anzi, aggravata; il divario tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno nei redditi per abitante (e in quasi tutti gli altri aspetti della qualità della vita) è ai livelli massimi da almeno trent’anni, con la tendenza a crescere ancora; che, per quanto riguarda una vasta gamma di indicatori economici e sociali, il Mezzogiorno è stato superato o sta per esserlo da quasi tutti i Paesi dell’Europa mediterranea. Ma anche da un buon numero di Paesi dell’Europa centro-orientale diventando l’«ultimo della classe» nell’Unione Europea. (Mario Deaglio, Chiudere gli occhi non basta più, 6.8.09 La Stampa).

 

 Il 4 agosto scorso Il Messaggero offre in un sintetico Dossier un quadro completo dei ritardi che deve colmare il Sud. In dieci anni la presenza delle banche si è quasi dimezzata. La Corte dei Conti, nel suo rapporto del 2008, registra al Sud l’84% del disavanzo sanitario. Le ultime regioni commissariate sono Molise e Campania. In Sicilia 308 dei 390 comuni e 6 delle 9 provincie dell’isola sono finiti commissariati perché non sono stati capaci di approvare in tempo il bilancio di previsione o addirittura chiudere quello consuntivo del 2008. E’ questo il vero partito del Sud, scrive Stefania Piazzo su La Padania.

 La scuola nel Mezzogiorno, secondo l’Ocse, non offre una preparazione di buon livello. Le università del Sud non saranno premiate, in fondo, alla graduatoria stilata dal ministero, c’è Palermo e Messina. In undici anni in fuga dal Sud circa 700 mila tra diplomati e laureati, è il rapporto Svimez. La “Mafia s.p.a.” (cosa nostra, ndrangheta, camorra e sacra corona unita) ha fatturato lo scorso anno 130 miliardi di euro, con un utile che sfiora i 70 miliardi. Il solo ramo commerciale, quello che incide sull’impresa, ha ampiamente superato i 92 miliardi di euro, una cifra intorno al 6% del Pil nazionale, pari a quasi 5 manovre finanziarie. Infine c’è “il monumento” che rappresenta visivamente il disastro del nostro Meridione, l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, teatro di code e ingorghi.

 A questo quadro desolante, la classe politica italiana sembra capace di proporre soltanto rimedi già sperimentati e di provata inefficacia. Si punta, infatti su infrastrutture, intese più come stimolo produttivo nel momento della costruzione che come strumento di crescita nel lungo periodo; sulla spesa pubblica più per assorbire disoccupati che per rimuovere arretratezze strutturali; su una Banca del Sud, idea senz’altro lodevole, che rischia però di diventare una seconda Cassa del Mezzogiorno, ossia un veicolo di nuovi finanziamenti a pioggia con scarsa attenzione alla redditività. (Ibidem)

 Intanto il Mezzogiorno rimane senza strade, ospedali costruiti con sabbia al posto del cemento, come nel caso di Agrigento; i suoi boschi vengono dati alle fiamme da «piromani» che distruggono un patrimonio secolare spesso con la speranza di essere pagati cifre modeste per spegnere i roghi da loro stessi appiccati. In questi aspetti patologici, Campania, Calabria e Sicilia si distinguono per la gravità della loro situazione. Non fa meraviglia la riluttanza crescente del Nord nel convogliare nuove risorse (e quindi nel pagare imposte sensibilmente più alte di quelle del resto d’Europa) per un progetto non chiaro di crescita che non offre alcuna speranza di un rapido decollo.

 Per uscire da questa situazione, non bastano le ricette degli studiosi o i programmi, largamente carenti, dei politici. Il vero ingrediente mancante è il coinvolgimento dei meridionali e non servono partiti nuovi, espressione di una classe politica vecchia che ha difficoltà a gestire le risorse in funzione della crescita. Cari meridionali, potrebbero legittimamente dire gli altri italiani, non limitatevi a constatare che nel Mezzogiorno c’è molta povertà e molta disoccupazione e a chiedere che «lo Stato provveda»; individuate le carenze non dell’intervento pubblico ma di un sistema politico-sociale che ha finora reso vano, in termini di sviluppo e crescita economica relativa, qualsiasi intervento pubblico.

 La nascita di un partito del sud per Piero Ostellino è una manifestazione di rivendicazionismo assistenzialista, non è il Sud che si propone come un’opportunità per la stessa unità del paese. La Lega al nord invocava, sia pure in chiave retorica, la secessione contro Roma ladrona, il sud invoca ora l’assistenzialismo da parte della stessa Roma ladrona. È il frutto della cattiva abitudine a vivere alle dipendenze della carità pubblica.

 Un imprenditore serio come l’editore Rubbettino chiede allo stato di non dare più sussidi al Sud, perché così facendo si finisce per impedire la nascita di una buona imprenditoria.

 Un territorio come il Meridione, scriveva G. Paragone su Libero, non può essere una zavorra; un territorio che ha un paesaggio tra i più belli al mondo, un clima godibile tutto l’anno, una ricca tradizione enogastronomica e soprattutto un ricco patrimonio artistico. Sta prima di tutto agli abitanti del Mezzogiorno delineare come dovrebbe essere il Mezzogiorno nei prossimi vent’anni.

 E’ tempo, quindi, di un vero dibattito sul Mezzogiorno, incentrato sulle compatibilità economiche in tempi lunghi e tale da coinvolgere non solo la classe politica ma la società civile meridionale. In assenza di tale dibattito si continua a privilegiare «il mattone», ossia la costruzione di infrastrutture, e a vagheggiare di «una banca». Da almeno un secolo il binomio mattone-banca si è rivelato inadatto al decollo del Mezzogiorno ed è difficile che rappresenti la soluzione ideale nel mondo tecnologico di oggi; così come il decollo è difficile quando l’ufficio stampa di una Regione meridionale occupa più persone di un centro di ricerca e quando un usciere della stessa Regione è pagato di più di un ricercatore universitario. I contributi esterni non possono essere risolutivi se il Mezzogiorno non prende in mano il proprio destino; se non lo fa, nonostante nuovi partiti e (forse) nuovi fondi, il suo allontanamento dal resto d’Italia è destinato ad aggravarsi.

 Alberto Ronchey vede tre impedimenti per lo sviluppo del Sud, il clientelismo, la «fatalità geografica meridionale», ossia, non soltanto l’aggrovigliata o irregolare idrografia, ma un territorio di aree montuose disboscate da secoli e colline a costituzione geologica fragile con una percentuale di pianure pari solo al 18, 3 contro il 34, 9 del Nord. Infine la storica e ancora crescente propagazione di mafie o camorre. Ad un imprenditore o un manager, come ripete chi preferisce investire nell’Andalusia o altrove, può rischiare il denaro, ma non la vita per un appalto.

 

S. Teresa di Riva, 12 agosto 2009                                  DOMENICO BONVEGNA

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